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Visualizzazione dei post da gennaio, 2011

Ventotto zerouno undici

Uno vale molto più di nulla, per te che oggi ci sei. Ci sei stata contro tutto e con tutti e noi qui, a guardare la tua commedia senza capire come, quando, dove qualcuno ha scritto un primo atto così Passen i ann, passa l’acqua deent al fium passa i ricordi, passa el fium sota i soo punt, passen i fever, passa el fium dent al soo mar, passen i lun, passan i nivul sora del mar passa tucc in di too respir e l’è drèe a piov sura del muund. (Passano gli anni, passa l’acqua dentro al fiume, passano i ricordi, passa il fiume sotto i suoi ponti, passano le febbri, passa il fiume dentro al suo mare, passano le lune, passano le nuvole sopra il mare, passa tutto nei tuoi respiri mentre piove sopra il mondo) Uno è solo la prima parte, inizio da dove tutto scorre. Ieri è finito e l’oggi ti abbraccia mentre il domani ti invita da lui. Nulla da capire, solo da applaudire te che hai sempre lottato sorridendo. (Ad Alessia, nel suo primo compleanno)

Ha voluto vivere. La storia di Alessia. SENZA OSSIGENO

Cuore e polmoni. Chi va in bicicletta, chi corre a piedi, non va lontano se non ha cuore e polmoni. Dopo quasi cento giorni, tre mesi, di incubatrice, Alessia aveva finito di sviluppare i suoi polmoni. Era pronta al grande salto: respirare la nostra aria, senza quel tocco di ossigeno in più che ti lega ai respiratori e alle bombole. L’intubazione, la mascherina CPAP che allenava Alessia come un metronomo al ritmo del giusto respiro, il tubicino di ossigeno nell’incubatrice: non c’erano più, erano ormai cronaca da mandare agli atti di una cartella clinica. E’ stato il modo con cui Alessia ci diceva che ormai stava crescendo, stava diventando sempre più grande, nella sua fragilità. Brava Alessia, adesso respira tu…. è quasi fatta… Questo pensavo, mentre con lo sguardo tenevo d’occhio i valori di saturazione dell’ossigeno che cambiavano sul monitor. Maledizione al saturimetro; è un attrezzo infernale, ti dà una dipendenza psicologica. Non ne puoi più fare a meno. Pensi a come cazzo farai

Ha voluto vivere. La storia di Alessia. ISOLAMENTO!

Non c’è nulla di più rassicurante di trovare le cose là dove le abbiamo lasciate. Vai, cerchi e trovi lì dove ti aspetti di trovare quello che cerchi. Capita così anche con Alessia: entri nello stanzino della terapia intensiva e lì, in fondo a sinistra, trovi l’incubatrice giusta. Un giorno però capita che entri, vai nello stanzino e Alessia non c’è. Quel brevissimo periodo di tempo che passa tra quando te ne rendi conto e la risposta del medico a cui chiedi dov’è finita tua figlia è però abbastanza lungo per farti girare nella testa un carosello di ipotesi. Il problema è che ogni ipotesi ti sembra quella giusta. Certo, se non è lì, l’hanno spostata… o perché sta meglio o perché sta peggio. Pensarci è un attimo, ma quell’attimo basta per toglierti la forza dalle gambe. “E’ stata portata in isolamento” mi dice uno dei medici di guardia. Alessia è stata allontanata dagli altri neonati: per fortuna è solo una congiuntivite. Già è triste vedere questi pic

Ha voluto vivere. La storia di Alessia. MONITOR

Non ho mai guardato un monitor con tanta attenzione come quando Alessia è stata ricoverata in terapia intensiva neonatale. Cosa si nascndeva dietro questi schermi e quelle righine colorate? Grafici, valori dei parametri vitali che stavano misurando alla piccola Alessia. Colorati come in un piccolo arcobaleno. Il rosso della pressione massima e minima. Il bianco degli atti respiratori. Il giallo delle pulsazioni cardiache. L’azzurro della saturazione di ossigeno nel sangue. Quattro valori, quattro carte in picche, quadri, cuori, fiori che ti dicono se e quanto va bene il tuo neonato. E poi gli allarmi, segnali acuti che ti avvisano se tuo figlio sta passando un momento dove il cuore batte poco o il suo sangue è poco ossigenato. Nella terapia intensiva è normale sentire questi concerti di allarmi che suonano. Al minimo accenno di rumore, l’occhio corre subito al monitor e fotografa immediatamente le condizioni del neonato. “Oggi la pressione è un po’ ballerina…” “La saturazione scende

Ha voluto vivere. La storia di Alessia. FATE ENTRARE DIO IN TIN

Fate entrare qualche volta Dio in terapia intensiva neonatale, se non c’è già stato. Fategli mettere i calzari, la veste, la mascherina, i guanti. Fategli vedere i bambini da mezzo chilo, da un chilo, da due, da tre. Fategli vedere le incubatrici, le bombole di ossigeno, i tubi, le sonde, i sensori, i tracciati dei battiti e dei respiri. Fategli vedere le radiografie, le ecografie, le risonanze magnetiche. Lasciatelo guardare le mamme e i papà che accarezzano, lavano, portano al petto figli che dovrebbero ancora crescere nel ventre della loro madre. Lasciatelo ascoltare i suoni dei monitor che sussurrano sul battere del cuore, che avvisano se il respiro è debole, che strillano quando l’ossigeno scarseggia. Lasciategli asciugare le lacrime di padri e madri che si aggrappano ad ogni fiato, lasciatelo ammirare i sorrisi di padri e madri che hanno capito che il giorno dopo si va tutti a casa. Lasciate che parli coi dottori, che cambi i pannolini, che veda il latte dentro ai biberon o sp

Ha voluto vivere. La storia di Alessia. BOTALLO E IL SUO DOTTO

“ Vi hanno già parlato del dotto di Botallo?” ci dice la dottoressa neonatologa. No. Non sappiamo nulla di questo signor Botallo, del suo dotto e non sappiamo cosa c’entri tutto questo con nostra figlia Alessia. Proprio mentre ci stiamo tranquillizzando un po’, visto che il postoperatorio di Alessia è andato bene, c’è un’altra novità alle porte. Leonardo Botallo era un medico del 1500, molto esperto, che finì i suoi giorni al servizio del re di Francia a Parigi. Un cervello italiano emigrato, come tanti. A lui è dedicato un tubicino che porta il sangue dall’aorta all’arteria polmonare. Questo dotto rimane aperto nella vita uterina e si chiude da sé poco dopo la nascita, modificando la circolazione sanguigna nel bambino neonato. Spesso nei prematuri non si chiude da solo: Alessia, ovviamente, non sfuggiva a questa regola. Quando non si chiude si prova ad intervenire farmacologicamente, dando ai neonati una sostanza, l’ibuprofene: generalmente questa mossa ha successo; Alessia invece

Ha voluto vivere. La storia di Alessia. ILEO DA MECONIO?

Ho imparato a conoscere cos’è il meconio dopo pochi giorni di vita di Alessia. E’ la cacca dei neonati. Nasci e la devi fare. Non importa come e quando nasci, importa che il meconio lo devi buttare fuori e lo devi fare in fretta. Alessia invece niente. Dopo quattro giorni non aveva ancora buttato fuori il meconio. Intubata, con i polmoni che stavano cercando di imparare a lavorare da soli e a formarsi del tutto, adesso era anche sorvegliata speciale. I dottori ci accennano il problema con delicatezza, ma lasciano aperta la porta alla speranza che l’intestino lavori. “Alessia, forza, caga”. E a cosa devo pensare adesso? Devo fare già il tifo per i polmoni che maturino un po’ di più e ora ci si mette anche la questione del meconio. Io e Laura capiamo che la soluzione al problema è solo chirurgica. Ma cos’è un’operazione su un corpo di poco più di sette etti? Non ci voglio pensare… caga Alessia. Dura poco. Capisco tutto quando vedo entrare in terapia intensiva il

Ha voluto vivere. La storia di Alessia. MASCHERA, GUANTI E CALZARI

Passare la porta che ti conduce al reparto di Terapia Intensiva Neonatale è come passare dal paradiso al girone dell’angoscia. Prima della porta c’è il nido, dove vengono messi i bambini appena nati in attesa della dimissione. Dalle grandi finestre si possono vedere i neonati che dormono, piangono, studiano per le prime volte cosa c’è fuori dalla placenta della mamma. Qui stanno tutti bene. Stanno bene i papà e le mamme. Stanno bene i fratelli e le sorelle, gli zii e i nonni, gli amici e i parenti. E’ una gara tra tutti a confrontare pesi, tagli degli occhi, altezze, capelli. Foto, fiori, pacche sulle spalle. Poi ti giri, passi per la porta e cambi mondo. Entri in un ambiente dove la speranza e la disperazione fanno a pugni per conquistarsi il titolo del tuo animo. Entri nel prolungamento dell’utero quando l’utero non c’è più. Qui lottano con i figli i papà e le mamme, i nonni entrano una volta alla settimana, i fratelli, le sorelle e gli zii non possono entrare.

Ha voluto vivere. La storia di Alessia. ACCRETA: COSA VUOL DIRE?

Che quella di Alessia sarebbe stata una gestazione difficile l’avevamo capito presto. Già prima di arrivare al giro di boa del terzo mese eravamo finiti al pronto soccorso, preoccupati per una delle emorragie che avrebbero scandito tutta la gravidanza. Il copione è sempre quello: vedi quel sangue che non ti aspetti, ti vesti come meglio puoi, ti infili in macchina più presto che puoi, arrivi in ospedale coi battiti alle stelle e stai inerme a vedere come va a finire questa roulette russa. “Metrorragia”: è sempre la diagnosi di accettazione, che per i medici è quello che le donne in gravidanza chiamano emorragia; non lo sappiamo ancora, ma di queste diagnosi ne collezioneremo un po’. Prosegue il copione: sdraiarsi sul lettino, fare l’ecografia, vedere se l’esserino che è dentro di Laura dà ancora segni di vita. Aspettare infine il referto del medico. Come un giudizio superiore, senza appello: solo allora si può capire se si va avanti. Anche quella volta ci è andata bene: Laura si deve f

Ha voluto vivere. La storia di Alessia. ZERO, UNO, DUE.

Poteva morire… Poteva morire? O potevano morire… Potevano morire? Non lo so, e non lo saprò probabilmente mai. Tra me, tra noi e la risposta a queste domande, da quel giorno c’è un muro di nebbia. Un muro fitto, dove non conviene cercare di passarci in mezzo. Da quel giorno, 28 gennaio 2010 maledetto o benedetto non so, in cui Laura ha dovuto correre in ospedale: un’emorragia stava mettendo a rischio lei e Alessia. Quel giorno Alessia era nella pancia di Laura da 26 settimane e una manciata di giorni. Era tecnicamente un feto, ma per noi era già Alessia: io e Laura avevamo incredibilmente già trovato un accordo sul nome. Con Lucia, la nostra prima bimba, la scelta del nome era stata una sorta di trattativa tra azienda e sindacato, tra maggioranza e opposizione: due veti per ciascuno di noi e poi largo alla trattativa. Stavolta il braccio di ferro non c’era quasi stato. Alessia andava bene a tutti e due, e quindi ci eravamo fermati subito lì. Quel giorno parte l’emorragia, inarre