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Era tardi. Racconto di Natale

Era tardi.


Tardi perchè stava per arrivare la notte e tardi perchè era una notte invernale.
Non avevo ancora finito il mio lavoro, anche se la giornata era stata lunga.
Decisi di lasciare perdere ed andarmene comunque: non potevo fare troppo tardi.

La luna stava salendo: un vento teso spazzava il cielo e, maledizione, avevo ancora troppe cose da fare.
Mia madre, la collina da attraversare, la mia ragazza.
Dovevo mettere in fila le cose; ma ero in ritardo e, in qualsiasi modo le avessi messe, avrei comunque sbagliato.
Sbagliato perchè non si può passare la collina col buio, non si può lasciare la ragazza per ultima, non ci si può dimenticare di una madre che ti chiede aiuto.

Nella confusione la mente cercava di essere fredda, fredda come quella sera.

Così, mentre i miei occhi erano catturati da una luna speciale e da una stella che da qualche giorno rimaneva fissa ad oriente, agii d’istinto.

Madre, poi ragazza, poi collina… - pensai - potrebbe essere una buona idea.

Incasellare la vita, gli affetti, i desideri: so che è difficile, cinico, quando il tempo ti dice che devi finire con qualcuno perchè devi iniziare con qualcun altro.
E tu non vorresti staccarti e, se non ti stacchi, diventa tardi.  
Iniziai allora da mia madre.
Aveva la febbre da qualche giorno e non riusciva a farsela passare.
Era stata anche dal medico, che le aveva controllato tutto quello che c’era da controllare, suggerendole l’ennesima cura a base di medicine e decotti.

Ah già, i decotti. 
Dovevo ricordarmi di portare della valeriana in foglie.
Questo imprevisto della valeriana mi scombinava ancora di più i piani: una decina di minuti di cammino in più per andare a comperarla.
E, questo, aggiungeva ritardo al mio ritardo.

Non fu la sola cosa che mi rallentò.
La mamma non aveva ancora vinto la febbre, ma aveva ritrovato la voce.
Nella sua gola erano stipate e compresse tutte quelle parole che non era riuscita a dire nei giorni prima.
Partì con l’umidità, poi si mise ad elencare tutti gli acciacchi che aveva e, passando poi per qualche ricordo degli anni prima e la poca sopportazione di mio padre, finì col descrivermi tutti i lavori dell’orto fatti e da fare.

La luna era sempre più alta, il sole sempre più basso sul’orizzonte ed il vento strigliava ancora gli alberi.
Capii che era tardi.
Uscii dalla casa di mia madre appena in tempo, prima che mi chiedesse di spargere il letame sotto gli ulivi.

Calcai la stoffa del mio copricapo sulle orecchie, per fermare un po’ quel vento gelido.
La luna e la stella illuminavano bene le strade ed i sentieri sterrati.

Presi la via che portava alla casa della mia ragazza, immaginando quale sarebbe stata l’accoglienza: ero in ritardo e non mi ero nemmeno fatto la barba.
La casa di Marta era poco lontano da quella di mia madre: almeno questo giocava a mio favore.

La luna e le luci delle case rischiaravano bene la strada, che era come al solito piena di gente a quell’ora.
In più era stato giorno di mercato e qualche bancarella resisteva ancora, nonostante il freddo.
Avrei voluto prendere dei dolcetti al miele, giusto per presentarmi con qualcosa tra le mani, ma era troppo tardi.
Mentre stavo per bussare alla porta di Marta capii subito che la mia idea di passare anche la collina era ormai da abbandonare, almeno per il momento.

Peccato - pensai dentro me - ero curioso di capire se quel bambino di cui tutti parlano…

Marta aprì la porta a metà del mio pensiero: aveva una tunica bianca ed i capelli lunghi e neri le scendevano sul collo e sulle spalle.
Sì,non era proprio il caso di pensare alla collina da attraversare.
Mi fermai a casa sua: cenammo e passammo la notte assieme.
La mia sete di conoscenza la rimandavo al giorno dopo, senza farmi tanti problemi.
Per il momento mi ritenevo del tutto soddisfatto.

Quando, passata la notte, il sole cominciò a riscaldare un poco le case, uscii dal portone e salutai Marta.
Soffiava ancora un vento teso.
D’istinto mi coprii il volto e la gola con i pochi panni che avevo con me.
Era stata una notte fredda e la mattina non era da meno.

Presi la strada per la collina, affrettando il passo per scaldare un po’ il mio corpo: ce ne volle prima di perdere quella maledetta sensazione di freddo.
La strada era piena di gente che aveva voglia di raccontarsela: le parole disegnavano fumi nell’aria e il fiato prendeva forma.
Sentivo parlare di una stella incredibilmente luminosa e di una famiglia di stranieri che aveva richiamato molta gente dai villaggi vicini.
C’era chi non si fidava di quella gente e chi ne aveva sentito parlare in modo strano.

Anche io ero lì per quello: volevo vedere con i miei occhi quegli stranieri ormai così famosi e temuti, quel bambino che, si diceva, poteva essere un re.
Passai la collina, sempre di buon passo, con il vento che mi levigava le guance.

Entrai nella piccola città.

Il cuore aveva preso a battermi forte, come dopo una corsa; la voglia di capire e di vedere mi scatenava dentro ansia e curiosità.

Vidi una guardia: mi feci forza e chiesi dove diavolo potevo trovare quella famiglia di forestieri.

- Sgomberati ieri- rispose il soldato senza un briciolo di emozione.- Erano stranieri senza nessun permesso. Senza nessun lasciapassare per rimanere qui.
- Sgomberati? Cacciati? E il figlio? Non avevano anche un bimbo appena nato, cazzo? - dissi alzando la voce.
- Cerchi guai? - mi urlò in faccia la guardia - Sposta quelle chiappe molli da questo posto prima che ti metta la faccia al posto del culo. Sparisci!
- Va bene, va bene. Scusa, ho capito. Ho capito. Chiaro... - buttai lì come risposta.

E mi allontanai.

Pensai, più che a me, al bambino.

Dov’era, com’era, ma, soprattutto: c’era?

Ero arrivato tardi anche questa volta.
Per poche ore mi ero perso il motivo del mio camminare, del mio essere un uomo, della mia curiosità.

Piansi.

Sputai sulla terra di quel paese che non amava i bambini.

D’istinto, non so se per speranza o per disprezzo, mi girai per l’ultima volta verso quella casa diroccata dove aveva passato la notte il piccolo che si diceva essere un re.
Non vidi nulla, se non fuochi lontani, case con finestre illuminate a disegnare l’orizzonte ad est; null’altro.
Imprecai.
E infine me ne uscii dal presepe, triste, in silenzio.

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