Non è importante sapere dove, non importa sapere quando, ma mi ritrovo per scelta assieme a Laura in un punto di accoglienza temporanea per profughi.
Assieme ad altri volontari verso latte e the nelle tazze di chi si è alzato per fare colazione.
Tra i tanti, c’è anche una mamma in coda; il mio sguardo si alza da bricche, tazze e biscotti per fissarsi sugli occhi della bambina che sta con lei.
Riempio di latte la tazza della mamma e provo a tirare fuori qualche parola di un inglese misto di maccheronico e di sonno.
A qualcuno provo a chiedere il nome: mi rispondono, provano un po’ di italiano, poi prendono le loro cose e si siedono a tavola.
Chissà in quanti modi diversi, in quell'arcobaleno di provenienze, chiamiamo dio; e chissà quante idee di dio ci sono lì tra noi.
Chissà poi quante storie, quali immagini, quali affetti queste persone si portano dentro.
La mia parte più egoista vorrebbe conoscere tutto e subito: da dove arrivano, perchè, cosa, come.
Ma non è giusto. nessuno di noi è lì per questo.
Siamo lì perchè prima di tutto loro chiedono latte, the, un posto dove appoggiare quel poco che hanno, ristorarsi, rifiatare e magari ripartire.
Poi, forse dopo e con calma, verranno anche le relazioni, le parole, gli sguardi.
Riempio le ultime tazze di latte quando io e Laura ci accorgiamo che è arrivato il momento di partire; partire per lavorare.
E’ tempo di qualche saluto, qualche parola in italiano, qualche sguardo che incrocia occhi nerissimi o impastati di sonno o anche persi in chissà quale pensiero.
Usciamo dal punto di accoglienza.
Mi continuano a ronzare in mente due tarli: il mio inglese fa probabilmente schifo, ma niente può oggi darmi più forza degli occhi luminosi di quei piccoli ospiti.
Assieme ad altri volontari verso latte e the nelle tazze di chi si è alzato per fare colazione.
Tra i tanti, c’è anche una mamma in coda; il mio sguardo si alza da bricche, tazze e biscotti per fissarsi sugli occhi della bambina che sta con lei.
Riempio di latte la tazza della mamma e provo a tirare fuori qualche parola di un inglese misto di maccheronico e di sonno.
A qualcuno provo a chiedere il nome: mi rispondono, provano un po’ di italiano, poi prendono le loro cose e si siedono a tavola.
Chissà in quanti modi diversi, in quell'arcobaleno di provenienze, chiamiamo dio; e chissà quante idee di dio ci sono lì tra noi.
Chissà poi quante storie, quali immagini, quali affetti queste persone si portano dentro.
La mia parte più egoista vorrebbe conoscere tutto e subito: da dove arrivano, perchè, cosa, come.
Ma non è giusto. nessuno di noi è lì per questo.
Siamo lì perchè prima di tutto loro chiedono latte, the, un posto dove appoggiare quel poco che hanno, ristorarsi, rifiatare e magari ripartire.
Poi, forse dopo e con calma, verranno anche le relazioni, le parole, gli sguardi.
Riempio le ultime tazze di latte quando io e Laura ci accorgiamo che è arrivato il momento di partire; partire per lavorare.
E’ tempo di qualche saluto, qualche parola in italiano, qualche sguardo che incrocia occhi nerissimi o impastati di sonno o anche persi in chissà quale pensiero.
Usciamo dal punto di accoglienza.
Mi continuano a ronzare in mente due tarli: il mio inglese fa probabilmente schifo, ma niente può oggi darmi più forza degli occhi luminosi di quei piccoli ospiti.
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