Nella mia vita mi è sempre piaciuta la sismica.
Ho scelto una laurea in ingegneria dove si studiava anche qualcosa sui terremoti e su come costruire le case per fare sì che nessuno rimanga sotto i soffitti crollati per le scosse.
Ma non ho mai progettato nulla, tranne qualche pezzo di autostrada o qualche galleria ferroviaria.
Un subappalto di un subappalto, in subappalto: ovviamente.
Eppure fare gli ingegneri vuol dire mettere in sicurezza una frana.
O vuol dire progettare un’automobile di serie da 280 chilometri all’ora.
O, ancora, costruire un nuovo cacciabombardiere, cercare di arginare le piene dei fiumi, disegnare una protesi, cercare un posto dove aprire una nuova discarica.
Qualcuno invece fa l’imprenditore, è il capo di un’azienda, gestisce il personale.
Essere ingegneri significa essere un po’ matti e creativi, logici e stralunati, sognatori, ma realisti incalliti.
Poi arriva il giorno che i coefficienti di attrito, i diametri del tondino di ferro, gli algoritmi, le cravatte da ingegnere, la gestione di progetti e obiettivi, passano in secondo piano.
Capita se tua figlia è appena nata, è nelle mani dei dottori e i tuoi integrali tripli o i tuoi calcoli strutturali non servono a nulla.
E vorresti essere tu lì, neonatologo, a rianimarla, intubarla, adagiarla nell’incubatrice come si posa nel nido un pulcino caduto.
Vorresti essere lì a salvare tutti gli altri bimbi della Terapia Intensiva perché quel reparto deve essere vuoto, maledizione, perché non esiste che quei bambini soffrano così.
Ogni bambino che nasce, ogni bambino che esce da una TIN è una speranza in più che viene regalata al mondo.
Facciamo nascere e crescere questa speranza.
E allora fate i neonatologi, non gli ingegneri…
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