Passare la porta che ti conduce al reparto di Terapia Intensiva Neonatale è come passare dal paradiso al girone dell’angoscia.
Prima della porta c’è il nido, dove vengono messi i bambini appena nati in attesa della dimissione.
Dalle grandi finestre si possono vedere i neonati che dormono, piangono, studiano per le prime volte cosa c’è fuori dalla placenta della mamma.
Qui stanno tutti bene.
Stanno bene i papà e le mamme. Stanno bene i fratelli e le sorelle, gli zii e i nonni, gli amici e i parenti.
E’ una gara tra tutti a confrontare pesi, tagli degli occhi, altezze, capelli.
Foto, fiori, pacche sulle spalle.
Poi ti giri, passi per la porta e cambi mondo.
Entri in un ambiente dove la speranza e la disperazione fanno a pugni per conquistarsi il titolo del tuo animo.
Entri nel prolungamento dell’utero quando l’utero non c’è più.
Qui lottano con i figli i papà e le mamme, i nonni entrano una volta alla settimana, i fratelli, le sorelle e gli zii non possono entrare.
Prima di arrivare in questo mondo c’è il rito della vestizione: bisogna mettersi un camice verde, indossare soprascarpe di plastica, lavarsi bene le mani e infilarsi i guanti sterili.
Mentre seguo per la prima volta questo cerimoniale, mi sembra di essere a metà tra un astronauta e un chirurgo in sala operatoria.
Ancora oggi non capisco cosa cazzo c’entrasse l’astronauta.
Le infermiere si raccomandano con me di lavare bene le mani e, se si ha un minimo accenno di raffreddore, di indossare la mascherina sul viso.
Se il raffreddore è forte, meglio starsene a casa.
Devono entrare meno germi possibile: c’è in gioco la vita di neonati che danzano sul filo del rasoio.
Oggi, 28 gennaio, sto entrando per la prima volta a vedere Alessia.
I battiti salgono mentre percorro il corridoio della Terapia Intensiva Neonatale.
Vedo tre sale, ognuna delle quali ospita piccoli pazienti a diversi stadi di terapia: prima sfioro la stanza della predimissione, poi passo accanto alla terapia sub intensiva, infine arrivo alla terapia intensiva vera e propria.
Attorno a me incubatrici vuote, incubatrici con bimbi, lettini vuoti,lettini con bimbi.
Non avevo mai visto un’incubatrice da vicino: ora, a 41 anni, capisco che sarà la piccola casetta di Alessia per qualche tempo.
Se Alessia ce la farà.
E’ il momento però di vedere la piccola attraverso il plexiglass.
Alessia è piena di tubi, sta vivendo grazie ai tubi e alle macchine che l’aiutano a respirare. E’ veramente piccola: sto guardando con occhi lucidi un cucciolo di uomo di 800 grammi che lotta per vivere.
Continuo a non pensare ad altro che ai tubi.
“Venga con me nell’ufficio in fondo…”
Il dottore neonatologo mi chiama per raccontarmi le prime notizie di Alessia Piazza, nata di 26 settimane e 800 grammi.
Firmo un po’ di moduli: accettazioni, consensi, autorizzazioni a terapie e trasfusioni.
Da quello che mi dicono capisco che Alessia sta rispondendo bene alle prime cure. Lo considero un buon punto di partenza.
Poi esco: tolgo camice, guanti, calzari.
Devo tornare verso la sala parto: Laura non è ancora uscita dalla sala operatoria.
Alessia è viva: e una.
Adesso, penso, deve salvarsi Laura: resisti, Laura, che arrivo.
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